Laboratorio di Poesia, a cura di Alfonso Maria Petrosino, esce l’ultimo venerdì del mese su ‘Poesia del nostro tempo’. Vengono commentati i versi degli aspiranti poeti del Laboratorio online e scelta la poesia del mese.

Già solo dall’analisi delle occorrenze lessicali (3 per “vita”, “cielo” e “cieli”, 2 per “torpore” e “consuetudini”) si possono dedurre i poli intorno ai quali gravitano i versi di Jessica Sciubba. Un paesaggio ostile, estraneo, uno sguardo che vaga ed è schiacciato dall’immensità dell’orizzonte, dalla “quotidianità fittizia”, da “sfondi ignoti”. Una delle sue poesie s’intitola Midwest e mostra il paesaggio che tanti film americani hanno immortalato: “la strada scorre / – piatta e identica – / ad occhi esausti mi perdo / nel rincorrersi di tralicci di filigrana / e comignoli turriti / che svettano incontrastati / nel nulla / di piane sconfinate”. Una dialettica tra questi due poli è ben illustrata dalla seguente poesia:

Funambola

Equilibrio instabile
tra vita e torpore
come sospesa
funambola fuori forma
su corde tese
taglienti come rasoi
affilati dalla scaltra lima
di un altrove fatto
di gelidi sospiri
paesaggi inospitali
e cieli striati di grigio, acqua
e lacrime

anche grazie al ritorno insistito del suono “osp” di “sospesa”, “sospiri” e “inospitali”, come passi esitanti sulla corda, e alla chiusa che rompe la simmetria dei versi precedenti composti essenzialmente da due elementi, come a mimare una caduta.

Le poesie di Sergio Racanati sono ricche di idee e immagini e, per come idee e immagini s’incalzano, di energia. Uno degli strumenti di accelerazione del ritmo sono le raffiche sinonimiche che possono avere, a seconda del significato, una funzione quasi metatestuale. Penso a “turbato / rubato / smembrato” o “sbrandellate / macinate / polverizzate” o ancora “rinnovando / rigenerando / ripresentando”. I versi

e sulla ripetitività
del gesto
vuoto prima
pieno dopo
l’attesa contratta
si fa fluidità

mi sembrano una fedele trascrizione dell’atto sessuale. Il ritmo precipitoso non esclude l’intarsio né la condensazione, come le “dottrine degli addii”, che è quasi difficile da dire (d’altronde è noto che that’s no way to say goodbye), la “Necropoli globale” e un magrelliano “condominio della carne”. Come esempio di questo stile versatile, eccone una di ambientazione post-atomica:

CENERI GALVANIZZATE

una calcomania mal riuscita
stretta tra le membrane sporche

le perle
– congelate di sudore morto –
giacciono da sempre
sui cadaveri in silicone

più volte ho sfogliato
l’inventario del mio cuore
turbato
rubato
smembrato
nella voragine nera

Venere danza
tra le scie bianche
di centrali elettriche e antenne satellitari
riverberando
– come canne estroflesse
dal peggior nemico –
segnali di una umanità
ormai estinta

contiamo insieme
i nostri reperti
le nostre orme
ormai dissolte
sbrandellate
macinate
polverizzate

chi scriverà la nostra storia?

il tempo
una dilatazione di azioni
pilotate
reiterate
senza carni

ma dimmi
dove siamo?

i lapilli della moltitudine
oramai
riposano sotto il manto
delle 5G

ascoltami
divarica le pupille sature
ormai in orbita
nell’info-sfera

aspettami
sotto le acque tossiche degli oceani

abbracciami
sulle ceneri galvanizzate
della nostra stessa devastazione

Come poesia del mese scelgo la terza delle tre di Sandra Branca: è notevole lo sbalzo tra la chiarezza del dettato e l’oscurità di fondo, sbalzo e connubio. Così come notevoli sono la capacità di dilatare lo spazio grazie ad aggettivi come “alti”, “lontana”, “lungo” e “sperduto”, con la stoccata finale del prezioso “terebrante”, e il cerchio aperto dall’asindeto dell’incipit (“Bacche rovi frutti”) che viene chiuso da quello in explicit (“svelarsi ascoltare essere”).

Bacche rovi frutti del buio, poi
cipressi alti fino alle rare stelle
e un odore d’asfalto pungente.
La sera attutisce e non ambisce
a essere in voga o mondana
in questa strada appena lontana
dal resto, in questo lungo
terebrante inverno come d’uno
sperduto paese di montagna.

Nel cammino spicco i frutti, domande
sulla sottile geometria delle cose,
sul disegno dei tuoi passi. La ferita
non scompare, l’inferno è un giro
a vuoto, la risposta cade nel pozzo.
Ma proseguire nel gesto accurato
di osservare, è una preghiera
è tenere saldo il filo del discorso.

Luna, alta e pallida, è tua la scena,
la città deserta. Sarà presto Natale
e mi dà pace questo spazio vuoto
da camminare, mi consola essere
minima parte d’una bellezza astrale
che non finge, che non vuole niente
se non svelarsi ascoltare essere.

 

Alfonso Maria Petrosino ha pubblicato quattro libri di poesia, Autostrada del sole in un giorno di eclisse (OMP 2008), Parole incrociate (Tracce 2008), Ostello della gioventù bruciata (Miraggi 2015) e Nature morte e vanità (Vydia 2020). La sua poesia, che descrive luoghi e situazioni in relazione a un paesaggio urbano e all’umanità che lo abita, si avvale di una metrica precisa e raffinata. La redazione di Poesia del nostro tempo ha scelto Alfonso Maria Petrosino per impersonare la figura del maestro, capace di leggere attentamente e suggerire soluzioni, anche ai neofiti della poesia, proprio per la sua capacità sia di aderire al “canone”, alla tradizione, che di frequentare i nuovi palcoscenici della poesia, dagli happening e performances al poetry slam, essendo stato campione indiscusso di queste scene per molti anni.

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