Dall’introduzione di Chiara De Luca

 

“Le più belle poesie / si scrivono sopra le pietre” scrive Alda Merini, “coi ginocchi piagati / e le mani aguzzate dal mistero.” E Abdellatif Laâbi le sue poesie più belle le ha scritte in una cella di prigione in Marocco, dove è stato confinato in ragione delle sue idee e della sua attività letteraria, dove ha subito le più atroci torture e spietate umiliazioni. Le poesie più necessarie e urgenti, quelle più potenti Laâbi le scrive ogni volta che torna in quella cella, nella solitudine e nel silenzio, nel dolore e nell’assenza di risposte che fanno levare e riecheggiare la sua voce con forza contro l’ingiustizia, contro ogni genere di prepotenza e sopraffazione. Di fronte al male il poeta non chiude mai gli occhi, neppure quando se ne trova sommerso e all’apparenza sopraffatto e schiacciato. Perché il poeta è per Laâbi colui che ha il compito di sobbarcarsi il male, il proprio e quello del mondo, di viverlo interamente, fino in fondo, per restituirci la parvenza di un senso. Il poeta non può in alcun modo sottrarsi al proprio compito, al dovere morale di guardare in volto il nemico, di sbugiardarlo, spogliando – con la sola forza delle parole e l’ardore del grido – i suoi carnefici, abbruttiti e disumanizzati fino al ridicolo, fino al grottesco. Anche una volta uscito di prigione, il poeta tornerà spesso con la mente agli anni terribili trascorsi in carcere. E lo farà senza remore, rivisitando i luoghi di un martirio che non ha perché, di una ferocia che non ha ragioni. Anche a distanza di anni dalla sua scarcerazione, dall’esilio francese, vissuto “con il Marocco nel cuore”, Laâbi affronta, ripercorre e rivive tutto il male subito, in prima persona e dai suoi compagni di sventura, e ritrova la lucida rabbia che lo aiutò a sopravvivere all’orrore. La sua poesia si fa protesta, la sua voce si leva in nome di tutti coloro cui la voce è stata sottratta, il suo verso diviene grido collettivo contro la degradazione che l’umano subisce quando va contro l’umano, e dunque contro se stesso, prima ancora che contro qualsiasi dio, o idolo, o simulacro, o proiezione ideologica, prima ancora che contro la legge. Perché non c’è ingiustizia più grande, non c’è sacrilegio più esecrabile, non c’è delitto più turpe che infliggere dolore ai propri simili, consapevolmente, deliberatamente, e senza alcuna ragione oltre l’aberrazione di un simulacro di religione che si fa pretesto e strumento di morte.

 

Da A ricomporre il colore dei suoi occhi. Poesie e altri testi scelti 1966-2014  (Edizioni Kolibris 2015, traduzione di Chiara De Luca con la collaborazione di Lidia Santonastaso)

 

Quatre ans

Cela fera bientôt quatre ans
on m’arracha à toi
à mes camarades
à mon peuple
on me ligota
bâillonna
banda les yeux
on interdit mes poèmes
mon nom
on m’exila dans un îlot
de béton et de rouille
on apposa un numéro
sur le dos de mon absence
on m’interdit
les livres que j’aime
les nouvelles
la musique
et pour te voir
un quart d’heure par semaine
à travers deux grilles séparées par un couloir
ils étaient encore là
buvant le sang de nos paroles
un chronomètre
à la place du cerveau

 

Quattro anni

Tra poco saranno quattro anni
mi aggrappai a te
ai miei compagni
al mio popolo
m’incatenarono
imbavagliarono
bendarono gli occhi
proibirono le mie poesie
il mio nome
mi esiliarono in un isolotto
di ruggine e cemento
apposero un numero
sulla schiena della mia assenza
mi proibirono
i libri che amo
i romanzi
la musica
e per vederti
un quarto d’ora a settimana
attraverso due grate separate da un corridoio
loro erano ancora là
a bere il sangue delle nostre parole
un cronometro
al posto del cervello

#

Bonjour soleil de mon pays
qu’il fait bon vivre aujourd’hui
que de lumière
que de lumière autour de moi
Bonjour terrain vague de ma promenade
tu m’es devenu familier
je t’arpente vivement
et tu me vas comme un soulier élégant
Bonjour pique-boeuf balourd et philosophe
perché là-haut
sur cette muraille qui me cache le monde
te chatouillant les côtes
à petits coups distraits
Bonjour herbe chétive de l’allée
frissonnant en petites rides opalescentes
sous la caresse taquine du vent
Bonjour grand palmier solitaire
planté sur ton échasse grenue
et t’ouvrant comme une splendide tulipe
à la cime
Bonjour soleil de mon pays
marée de présence annihilant l’exil
Que de lumière
que de lumière autour de moi

 

Buongiorno sole del mio paese
com’è bello vivere oggi
che luce
che luce attorno a me
Buongiorno desolata terra della mia passeggiata
mi sei diventata familiare
ti percorro con vigore in lungo e in largo
mi calzi come una scarpa elegante
Buongiorno bufaga goffa e filosofa
perché lassù
su quella muraglia che mi cela il mondo
ti solleticano le coste
a piccoli colpi distratti
Buongiorno erba fragile del sentiero
vibrante in piccole rughe opalescenti
sotto la carezza giocosa del vento
Buongiorno grande palma solitaria
piantata sul tuo trampolo granuloso
che come uno splendido tulipano ti schiudi
sulla cima
Buongiorno sole del mio paese
marea di presenza che annienta l’esilio
Che luce
che luce attorno a me

#

de Discours sur la colline arabe – 1985

Si les chaînes t’empêchent de marcher
garde les yeux ouverts
Si ta nuque percluse
t’empêche de lever la tête
garde les yeux ouverts
Si on te ferme les yeux de force
rouvre-les
dedans le continent sismique
de ton corps

*

Rien au monde
ne pourra t’oblige
à plier genou
renoncer
à ton identité humaine
Ne mesure pas ta force
à la balance de tes bourreaux […]

*

La cellule familière
que je transporte dans ma tête
La petite cour de promenade
que je transporte dans mes pieds
Les grosses clés des grosses serrures
qui tournent et claquent
quotidiennement encore
dans ma poitrine
L’uniforme gris rayé
qui a repoussé
sous mes habits de peau
Les yeux de mes camarades
incrustés dans les yeux
avec lesquels je scrute
le théâtre d’ombres
de la liberté à la petite semaine

*

Le tortionnaire s’est réveillé
Près de lui
sa femme dort encore
Il se glisse furtivement hors du lit
revêt sa tenue de jungle
et sort
Sur le chemin du réduit
où l’attendent ses instruments
et ses victimes du jour
il pense aux choses ordinaires de la vie
les prix qui grimpent
la maison qui sera trop exiguë
quand viendra le cinquième enfant
les pluies qui tardent de nouveau cette année
le dénouement du dernier feuilleton qui passe à la télé
Il pointe au bureau des entrées
se dirige vers le réduit
ouvre la porte
Les corps sont recroquevillés dans la pénombre
toussotements
puanteur
Lève-toi fils de pute !
crie-t-il
en lançant une ruade
au plexus du premier prévenu
que son pied rencontre […]

 

da Discorso sulla collina araba – 1985

Se le catene t’impediscono di camminare
tieni gli occhi aperti
Se la nuca bloccata
t’impedisce di alzare la testa
tieni gli occhi aperti
Se te li chiudono a forza
riaprili
dentro al continente sismico
del tuo corpo

*

Nulla al mondo
potrà obbligarti
a piegare le ginocchia
a rinunciare
alla tua identità umana
Non misurare la tua forza
sulla bilancia dei carnefici […]

*

La cella familiare
che mi porto in testa
Il cortiletto della passeggiata
che mi porto nei piedi
le spesse chiavi delle spesse serrature
che mi girano e stridono
quotidianamente ancora
nel petto
L’uniforme a strisce grigie
che mi è ricresciuta
sugli abiti di pelle
gli occhi dei miei compagni
di cella incrostati negli occhi
con cui scruto
il teatro delle ombre
della libertà a breve termine
*
L’aguzzino si è svegliato
Accanto a lui
la sua donna dorme ancora
Furtivamente scivola fuori dal letto
di nuovo indossa la mimetica
ed esce
Diretto al tugurio
dove l’aspettano i suoi strumenti
e le sue vittime del giorno
pensa alle cose ordinarie della vita
i prezzi che salgono
la casa che sarà troppo piccola
quando verrà il quinto figlio
le piogge che quest’anno tardano di nuovo
il finale dell’ultimo serial trasmesso in tv
Punta verso l’ufficio delle entrate
si dirige verso il tugurio
apre la porta
I corpi si sono accartocciati nella penombra
colpi di tosse
puzza
Alzati figlio di puttana!
grida
tirando un calcio
al plesso del primo malcapitato
che il suo piede incontra […]

#

La langue de ma mère

Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans
Elle s’est laissée mourir de faim
On raconte qu’elle enlevait chaque matin
son foulard de tête
et frappait sept fois le sol
en maudissant le ciel et le Tyran
J’étais dans la caverne
là où le forçat lit dans les ombres
et peint sur les parois le bestiaire de l’avenir
Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans
Elle m’a laissé un service à café chinois
dont les tasses se cassent une à une
sans que je les regrette tant elles sont laides
Mais je n’en aime que plus le café
Aujourd’hui, quand je suis seul
j’emprunte la voix de ma mère
ou plutôt c’est elle qui parle dans ma bouche
avec ses jurons, ses grossièretés et ses imprécations
le chapelet introuvable de ses diminutifs
toute l’espèce menacée de ses mots
Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans
mais je suis le dernier homme
à parler encore sa langue

 

La lingua di mia madre

Non vedo mia madre da vent’anni
si è lasciata morire di fame
dicono si togliesse ogni mattina
il foulard dalla testa
per sbatterlo in terra sette volte
maledicendo il cielo e il Tiranno
io ero nella caverna
là dove il forzato legge nelle ombre
e dipinge sulle pareti il bestiario dell’avvenire
Non vedo mia madre da vent’anni
mi ha lasciato un servizio da caffè cinese
le cui tazze si rompono l’una dopo l’altra
senza che m’importi per quanto sono brutte
Ma ne amo ormai solo il caffè
oggi, quando sono solo
chiedo in prestito la voce di mia madre
o meglio è lei che parla dalla mia bocca
con le sue bestemmie, grossolanità e imprecazioni
l’introvabile rosario dei suoi diminutivi
tutta la specie in estinzione delle sue parole
non vedo mia madre da vent’anni
ma sono l’ultimo uomo sulla terra
a parlare ancora la sua lingua

#

En vain j’émigre

J’émigre en vain
Dans chaque ville je bois le même café
et me résigne au visage fermé du serveur
Les rires de mes voisins de table
taraudent la musique du soir
Une femme passe pour la dernière fois
En vain j’émigre
et m’assure de mon éloignement
Dans chaque ciel je retrouve un croissant de lune
et le silence têtu des étoiles
Je parle en dormant
un mélange de langues
et de cris d’animaux
La chambre où je me réveille
est celle où je suis né
J’émigre en vain
Le secret des oiseaux m’échappe
comme celui de cet aimant
qui affole à chaque étape
ma valise

 

Invano emigro

Emigro invano
In ogni città bevo il medesimo caffè
e mi rassegno al volto impenetrabile del cameriere
Le risa dei miei vicini di tavolo
straziano la musica della sera
Una donna passa per l’ultima volta
Invano emigro
e mi assicuro del mio allontanamento
In ogni cielo ritrovo una falce di luna
e il silenzio ostinato delle stelle
parlo nel sonno
un melange di lingue
e di grida d’animali
La stanza in cui mi risveglio
è quella in cui sono nato
Emigro invano
Il segreto degli uccelli mi sfugge
come quello della catastrofe
che a ogni tappa mi scompiglia
la valigia

#

Ce monde n’est pas le mien

Ce monde n’est pas le mien
et je n’ai pas d’autre monde
Je ne dispute à personne son royaume
Je ne convoite
que ce qui a été délaissé
par les convoitises :
un arpent de terre en jachère
un mouchoir de ciel
imbibé de lavande
un filet d’eau
plus pour le plaisir des yeux
que pour la soif
un fruit resté seul sur l’arbre
des livres hors commerce
usés à force d’être lus
des amitiés pour le simple repos du coeur
une étoile complice pour les confidences
en cas de douleur
des miettes pour attirer
les hirondelles de la vision
un bâton solide de pèlerin
pour entreprendre
encore et toujours
le seul voyage qui en vaille la peine
celui au centre de l’homme

 

Questo mondo non è il mio

Questo mondo non è il mio
e non ho nessun altro mondo
non contendo a nessuno il suo regno
desidero ardentemente soltanto
quel che è già stato abbandonato
dai desideri ardenti:
un arpento di terra a maggese
un fazzoletto di cielo
inzuppato di lavanda
un filo acqua
più per il piacere degli occhi
che per la sete
un frutto rimasto solo sull’albero
libri fuori commercio
consumati a forza di essere letti
amicizie per il semplice riposo del cuore
una stella complice per le confidenze
in caso di dolore
briciole per attirare
le rondini della visione
un solido bastone da pellegrino
per intraprendere
ancora e sempre
il solo viaggio che ne valga la pena
quello al centro dell’uomo

 

Abdellatif Laâbi è nato nel 1942, a Fès. La sua opposizione intellettuale al regime ha fatto sì che fosse arrestato e incarcerato per otto anni. Liberato nel 1980, è andato in esilio volontario in Francia nel 1985. Da allora, vive (con il Marocco nel cuore) nella banlieu parigina. Il suo vissuto è la sorgente primaria di un’opera plurale (poesia, narrativa, teatro, saggistica) posta alla confluenza di culture differenti, radicata in un umanesimo battagliero, intrisa d’ironia e tenerezza. Ha ricevuto il Prix Goncourt de la poésie nel 2009, e il Grand Prix de la francophonie dell’Académie Française nel 2011. Sue opere sono tradotte in varie lingue, tra cui arabo, spagnolo, inglese, tedesco, italiano, olandese, turco. Laâbi stesso ha tradotto dall’arabo molti autori contemporanei (Mahmoud Darwich, Abdelwahab Al-Bayati, Mohammed Al-Maghout, Saâdi Youcef, Abdallah Zrika, Ghassan Kanafani, Qassem Haddad, tra gli altri.)

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