Endorser, cioè colui che riceve da tale ditta o tale altra, materiale musicale, sportivo, cosmetico o di consumo per poi utilizzarlo durante i concerti, sul campo o sui video tutorial col fine di pubblicizzare l’azienda tra i suoi follower. Giuseppe Nibali, autore di questa rubrica, adotterà dunque un criterio interamente capitalistico per pubblicizzare tale autore o tale altro tramite un breve testo critico e alcune poesie.
Davvero strano è riconoscere (in un qualche passaggio, in un verso, in uno sguardo) la traccia di un poeta. Voglio che la morte mi trovi elegante, scrive Francesca, in chiusura di uno dei primi testi della sua raccolta inedita. Quasi a riprendere alcuni degli stilemi più duraturi di un decadentismo che torna, in questa nostra grassa società occidentale, mescolando elementi mortiferi e particolari vitalistici, in un braccetto leopardiano in cui la moda indie pascola serenamente con la morte. Francesca coltiva un gusto per l’osceno che so, dalle nostre conversazioni, venire da certe opere di Sarah Kane, Phedra’s love, sicuramente, come alla Fedra (di D’Annunzio), io associo una certa grazia del parlare e del definirsi, una attenzione alle ripetizioni quotidiane e borghesi (qui soprattutto i pasti), come anche un ossessione per fuggire l’osceno dicendolo, addolcendolo in un effluvio di ἄνθος καὶ θάνατος.
In un paese vicino al tuo c’era un poggiolo,
dava su una strada in ombra. Dalla porta abbattuta
uscivano gli uomini con corone di fiori,
[frattanto
sulle sedie i panni da stirare,
la farina gialla sciolta per terra
Un uomo ti ha riposto dentro un muro sconnesso, senza malizia
e neppure penso perché lui e non io ti ricopra di terra,
ti benedica le ossa.
Resterò qui, davanti al cielo, in canotta
con il ventre sudato, nudo come un bambino.
Perché io sanguino, dal cazzo e dal cuore, mentre voi
ve ne state sotto la croce.
*
È l’ora in cui il prete abbandona la casa che io ci rientro,
mi preparo al dopocena, allo sfrigolio di ciabatte,
mentre tu raffreddi, mia cara,, ed io ripenso al tuo abito azzurro,
incerto sulla spalliera, come uno straccio.
Voi che frugate nelle unghie ingiallite
uno ad uno istillate un odore tremendo.
Signora Teresa si trattenga, il suo gatto sul cornicione,
prometto, non sarà ridotto in polpa, adesso confusa interdetta
badi
che la gonna non mi si macchi di brodo e carne macinata.
Sette di sera, Agnese mi guarda,
fa capire che Chiara non torna.
La pasta lasciata freddare, capovolta la sedia smagrita,
per sempre nei secoli dei secoli.
Signora Teresa stia calma
stia calma, non il suo gatto
non il suo gatto è morto per strada.
Lo allontani dal luogo di pianto,
dal corpicino sventrato, la prego
Fa’ che non ci pisci sopra.
*
Da piccola credevo nei contorni, di notte
affondavo i casolari con le babbucce.
Mami, quando ti vedevo al mattino eri
argento-azzurra, la grazia che può avere il caolino sull’olivo
appena dietro il muretto secco.
Mami, i tuoi occhi, i tuoi occhi non sanno
quello che sei adesso, mollica umidiccia
che dà acqua alla terra, coraggiosa, tu sei sempre
quello che penso di più alto, e divento cieca anch’io.
Mami, è tutto un dopoguerra, non si dorme mai.
Il muretto storto, che al sole perde spazio, esce fuori dal suo cerchio.
Della mia Gerusalemme non è rimasta pietra,
e dal mio dondolo non tocco terra, ma rivedo
te che sbocci, voli verso un lato bianco,
poco oltre il cancelletto.
Ogni verso regala una fotografia diversa e mille sensazioni diverse. Non so bene cosa dire, ma so che lascia un’emozione diversa ad ogni lettura.
Una dolce Achmatova italiana. Bella scoperta