Valentina Morrocu in conversazione con la poeta Marilina Ciaco a proposito del suo lavoro atistico e della sua raccolta Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni Volatili 2020), sesto libro della collana I Cervi Volanti

 

Partirei dai seguenti versi: «procede in silenzio/l’asta dei tuoi organi/rispetteranno i protocolli/di un espianto riuscito». Mi sembra riassumano bene il senso del titolo, Intermezzo e altre sinapsi. Potresti motivare questa scelta?

Intermezzo e altre sinapsi nasce da una selezione – in parte decostruzione, in parte rielaborazione collettiva – condotta a partire da Sinapsi, un mio lavoro più ampio concluso nel 2019. Sinapsi si articolava nell’arco di tre sezioni “e mezzo” attraversando alcuni dei nuclei di senso che per me si collocano all’origine dell’atto di scrittura: il linguaggio come ferita aperta e trauma paradossale a un tempo; il rapporto fra la percezione illusoria di un’identità e l’alterità come cortocircuito, imprevisto, urgenza; l’insignificanza del quotidiano nei suoi automatismi da clic o da cover, laddove proprio le pieghe dell’infraordinario possono aprire a scardinamenti inaspettati dei sistemi (linguistici, mediatici, socioeconomici) nei quali siamo immersi. Nel contesto di Sinapsi, Intermezzo rappresentava una sospensione, l’elemento di disturbo, di autosabotaggio interno che innescava un primo vacillamento della struttura macrotestuale e semantica della raccolta, apparentemente tripartita e dunque dialettica. Ho scelto di partire proprio da questa irregolarità della trama testuale per allestire un progetto differente, non più individuale ma collettivo, in quanto non sarebbe stato possibile senza l’inserimento delle partiture visive di Giuditta Chiaraluce, che dialogano con i testi verbali instillandovi percorsi di senso inediti, e il lavoro curatoriale di Giorgiomaria Cornelio. Il sesto Cervo Volante scaturisce quindi da un autoannichilimento e da una rinascita. L’«espianto», che nel testo che hai citato segnala un momento di disfacimento, ha assunto nel tempo anche i connotati positivi di una dis-individuazione: gli organi senza corpo possono essere convogliati all’interno di un corpo differente, libero, aperto alle metamorfosi.

 

Il primo elemento che il lettore nota è la tua consapevolezza della lacerazione interna all’io. Ad essa si affianca, se vogliamo, una ricostruzione fondata su quelli che l’epistemologia e, in particolare, la filosofia analitica chiamerebbe criteri internisti. L’internismo è una teoria della conoscenza che descrive la realtà mediante criteri interni al soggetto: le interazioni tra neuroni sono sufficienti a rendere conto del funzionamento del mondo, ad esempio. Ti sembra che questa dinamica fondi e attraversi i tuoi testi?

Penso che questa possa essere una delle più potenti (e talvolta delle più resistenti) illusioni conoscitive dalle quali si possa essere sedotti, in particolare se si assume come prospettiva di partenza quella di un materialismo radicale, e quindi di una negazione di qualunque dimensione di trascendenza. Sarebbe senz’altro suggestivo, anche piuttosto rasserenante, credere nella riducibilità del reale ai paradigmi di funzionamento del soggetto umano, epperò anche un sistema di questo tipo – analogamente a quanto avveniva all’interno di Sinapsi – contiene al proprio interno le premesse di una confutazione. Ponendo anche per assurdo la plausibilità di un antropocentrismo tanto spinto, il funzionamento esatto della coscienza resterebbe comunque un mistero (i teorici della mente estesa e dell’intelligenza artificiale, ma anche del pensiero ecologico, potrebbero argomentare molto meglio della sottoscritta a riguardo). Scriveva Nanni Balestrini in Empty Cage: «abitare il mondo intero non frammenti separati del mondo /ciascuno di noi è il centro del mondo senza essere un io/il mondo non è diventa si muove cambia». In altre parole, penso che, più di tutte le illusioni conoscitive, a resistere sia sempre «il mondo» – reale, immaginario, simbolico – in tutta la sua opacità. Un mondo da attraversare, sondare, esplorare, ma senza la pretesa di esaurirne gli orizzonti di possibilità.

 

L’altro elemento che salta all’occhio del lettore è la puntuale registrazione dei dati sensibili. Che valore attribuisci, se ce l’hanno, agli oggetti e, più in generale, alla percezione della realtà?

Come hai ben colto, per me è fondamentale l’incontro costante e quotidiano che avviene fra il soggetto della percezione e i fenomeni esterni, incontro che innesca un enorme accumulo di dati sempre frammentari, contraddittori, e che imprimono su chi percepisce una traccia non sempre riconducibile a un paradigma interpretativo organico. Una traccia di alterità con la quale siamo costretti a fare i conti. Fino a qualche tempo fa, il sostrato teorico al quale ho più spesso fatto riferimento è stato forse assimilabile all’area della fenomenologia (Husserl, Merleau-Ponty), particolarmente cara a una certa tradizione secondonovecentesca italiana che accomuna anche autori sensibilmente differenti tra loro (Antonio Porta e il “secondo” Vittorio Sereni, per menzionare soltanto due degli esempi più emblematici). In seguito, l’aver ampliato i miei interessi personali e di ricerca in un senso transdisciplinare e transmediale ha fatto sì che mi avvicinassi maggiormente all’estetica contemporanea, quella in particolare di area cognitivista, oppure la cosiddetta “estetica atmosferica”. Mi interessa molto anche la prospettiva assunta dall’ Object-Oriented Ontology, che arriva a mettere in discussione i fondamenti stessi della fenomenologia riformulando il ruolo degli oggetti nei processi conoscitivi in chiave attiva e trasformativa. Del resto, il paesaggio contemporaneo è abitato dalle carcasse in polietilene dell’iperproduzione tardocapitalistica, gli oggetti sono ovunque e tutti noi siamo sempre oggetto di un insieme di processi all’interno di un sistema, «tutto è oggetto». Un caso molto curioso di reattività del linguaggio al paesaggio, a cavallo fra la street art e l’installance, è la moltiplicazione negli ultimi anni delle scritte sui muri che seguono il modello di enunciato «[x] è un iperoggetto». Puoi sostituire la variabile con, letteralmente, qualsiasi cosa. Fa sorridere, ma dà anche da pensare.

 

Come ha influito lo studio di Zanzotto sul tuo modo di concepire un testo?

La voce di Zanzotto è stata per me una delle più assiduamente interrogate e auscultate almeno in una certa fase del mio percorso, che si è conclusa intorno al 2017 (anno nel quale ho portato a termine il lavoro di tesi magistrale intitolato, per l’appunto, Trauma storico e sperimentalismo linguistico in Andrea Zanzotto). Avere tra i propri punti di riferimento un autore di tale statura poetica e filosofica comporta senz’altro dei rischi, almeno finché non avviene quel processo, psicoanalitico in senso lato, per cui si tende a rovesciare la paternità letteraria in una forma di fratellanza – ne ha parlato approfonditamente Gian Luca Picconi in relazione ad alcuni processi di filiazione/affiliazione riscontrabili nella poesia di ricerca italiana. Se penso ai testi pubblicati in Intermezzo, almeno un paio di motivi di ascendenza zanzottiana sono senz’altro rimasti invariati: di sicuro la presa di coscienza dell’essere, prima che individui, un «corpo-psiche» che «è qualcosa di spaventosamente scritto, inscritto, riscritto, scolpito, sbalzato, modellato, colorato, graffiato da un infinito insieme di elementi, in quel brodo generale, in quel plasma totale di cui esso non è che un grumo o un ganglio». Il corpo-psiche si configurerebbe dunque come un punto di osservazione (o di ancoraggio) assolutamente arbitrario rispetto a un vastissimo ecosistema di cui continua a far parte e al cui interno inscrive alcuni nuovi significati o «frecce di senso», dei quali il testo si fa tramite. In questo processo «il corpo non c’è se non come fantasma psichico finemente strutturato» e il testo si leggerà come autobiografia fallace, nella constatazione che «ogni biografia tende ad essere pangrafia». (A. Zanzotto, Vissuto poetico e corpo in Prospezioni e consuntivi, Le poesie e le prose scelte, 1999). Un altro punto che mi sembra fondamentale è la collocazione del testo e della lingua poetica in seno a un paradosso linguistico e conoscitivo, quello che conduce a un collasso degli assetti categoriali rendendo indistinguibili «io» e «mondo», «langue» e «parole», discorso della norma e del codice, logos, cultura, e dall’altra parte biologia-fisiologia, movimento incoercibile della natura e dell’immaginario, «perturbante assoluto» che oggi chiameremmo, con Mark Fisher, weird o eerie. Quello che oggi avverto come più distante rispetto agli anni scorsi, non solo sul piano stilistico, ha forse a che fare con una certa idea di «verità» insita nel testo, termine che preferisco evitare in favore di un più contestuale e relazionale svelamento.

 

Di seguito alcune partiture visive (realizzate da Giuditta Chiaraluce) e alcuni testi tratti da Intermezzo e altre sinapsi

 

Marilina Ciaco è nata nel 1993 a Potenza. È dottoranda di ricerca in Literature and Transmedia Studies presso l’Università IULM di Milano, città dove attualmente vive. È stata selezionata come autrice emergente per l’edizione 2017 di RicercaBo e alcuni suoi testi hanno ricevuto segnalazioni in diversi concorsi letterari tra cui il Premio Lorenzo Montano. Nel 2018 ha partecipato alla performance poetica La notte di San Lorenzo presso il Museo per la Memoria di Ustica (Bologna). È fra i finalisti del Premio Nazionale Elio Pagliarani 2019 per la raccolta inedita Sinapsi.

(Visited 712 times, 1 visits today)